Tuesday 14 February 2012

la casa mela

Lucia sperava intensamente di essersi ricordata di far scaldare la camicia da notte sul termosifone , mentre percorreva a falcate gli ultimi metri gelidi del sotterraneo. Un dolce tepore sulla pelle era una ricompensa accettabile per quella giornata passata nella luce del neon e certamente non era un bonus riuscire a tenere stretti sottobraccio quel mucchio di fogli che aveva accumulato nella giornata; si diceva che sarebbe sicuramente riuscita a leggerli tutti prima o poi e se non si arrendeva a lasciarli volare via, forse ci avrebbe anche ritrovato un ordine , non sicuramente un senso, ma un ordine cronologico. Ed ecco che uscendo dal sotterraneo l'aspettavano a sorpresa una nuvola impazzita di piccolissimi fiocchi di neve, che si divertivano a schizzare elettrici nell'aria notturna. Impossibile non sorridere e ricordarsi degli altrettanto elettrici e ugualmente vivaci riccioli del ricercatore, che lo rendevano cosi' discretamente divertente , malgrado il suo tono calmo e la gentilezza con la quale aveva raccolto la penna dalla prima fila. Aveva in piu' dei bellissimi jeans, lunghi, slanciati e blu.
I fiocchi erano un pulviscolo di ghiaccio e aria; per i pochi metri che la separavano ormai dal portone, lascio' che le riempissero gli occhi e i pensieri col loro volteggiare frenetico che si interrrompeva solo per un attimo  sospenso sotto lla luce dei lampioni, ebbene anche un fiocco di neve vuole le sue luci della ribalta.
La signora alla quale era caduta la penna aveva delle stampelle, Lucia l'aveva aspettata perché non si trovasse al buio da sola nelle scale di servizio. Lucia penso' a sua madre e di colpo si domando' se sua madre esisteva veramente, se avrebbe potuto esistere se lei non fosse nata, se avesse una propria realtà solida e fisica, se era un prodotto della sua immaginazione, una necessità poetica per venire al mondo e vivere e destinata senza la sua nascita a rimanere una foto leggera e aleggiante come tutte quelle foto di persone che non conosciamo, che nella memoria rimangono sempre un po' trasparenti e bucherellate.


Lucia guardava la sua casa-mela, la toccava tonda e l'apriva e riusciva a tenerla tutta intera nel suo sguardo. Era tagliata a metà e all'interno compariva una casa ridotta alla sola cucina, il che era perfettamente logico visto che si vive solo in cucina . Magari ogni tanto serviva anche il bagno, ma se ne poteva fare a meno, la prova era che in tutti i cartoni animati non si vedeva mai nessuno andare in bagno. La casa-mela era perfetta da abbracciare tutta intera con lo sguardo , piccola eppure conteneva un tavolo apparecchiato a festa, due omini seduti e delle sedie per gli ospiti. Lucia penso' al bambino che doveva essere nella pancia di Lisa: "la pancia é quasi tonda come la casa-mela". Lucia immaginava che il bimbo dovesse essere seduto un po' come uno dei due omini, di fronte al suo vassoio; op-là ecco che ne fa ruotare uno dentro la casa mela con la minuscola manovella. Lucia si chiese come potesse essere che i vassoi riuscissero a passare dall'ombelico, la storia non combaciava per intero, "certo pero' sono piccoli, potrebbe anche essere". E continuo' a giocare.


Lucia ormai era letto e la camicia da notte era ritornata già fredda, rimaneva il tempo giusto di posare la testa sul cuscino e ..per un attimo si chiese se non fosse meglio tirare fuori il test di gravidanza dalla borsa, per non dimenticarsene la mattina dopo, ma ormai la testa stava per toccare il cuscino e chiuse gli occhi.

Sunday 12 February 2012

Blue eyes

"My father has the most beautiful blue eyes I have ever seen in a man. I do not say this because he is my father. They are mariner's eyes, level and steady. On the Malta convoys they scanned the surface of the sea for mines, or the horizon for an enemy warship. They are the eyes of a men who has never known the meaning of dishonesty. They are never tempted hum to anything mean or shoddy." Bruce Chatwin

Uno zufolo e un orologio non sono abbastanza per raccontare una vita.
Non mi ricordo piu' come usavi lo zufolo o a che ti serviva, forse te lo portavi per chiamare il tuo bracco quando andavi a cacciare. A quell'epoca cacciare era piuttosto attraversare i boschi di tronchi e di rami spogli, nella ninnanna sussurrata delle foglie cadute sposate col muschio sotto i piedi. Piano l'odore di terra, dei funghi passati ti si infilava nelle narici e dimenticavi il fucile che ti pesava sulle spalle, la pace e il silenzio dei pensieri si infilava dietro i tuoi occhi azzurri, puri e trasparenti.
Mi piace pensare che una domenica mattina come questa fa somigliare il giardino di Luxembourg a quei tuoi boschi: tra le quattro griglie di metallo, il bianco denso del cielo e tremolante fa atto di omertà di una primavera che dovrebbe essere vicina, i tronchi domestici bagnati nella discreta rugiada dorata dell'inverno, chissà che non sia il respiro della notte che non si vuole alzare. Sai che noi qui viviamo delle giornate veloci come un battere di ciglia, come una faraona che vola via; nei nostri inverni apriamo gli occhi per riuscire appena a abbracciare la luce del mezzogiorno che nasconde già la falcata del tramonto , e di nuovo una notte lunghissima ti invita a dormire e lasciare affondare le futili meditazioni di una giornata nel petrolio del sogno urbano. Siamo marmotte di città e condominio, troppo miopi per vedere la veste d'oro che ricopre i vetri e l'acciaio, noi dall'interno non sappiamo che stiamo in una struttura d'acciaio , non sappiamo per niente se il sole ci sta scaldando.
Da qui l'inverno delle tue campagne sembra durare un giorno appena, soltanto un giorno in cui ti svegli e trovi che un sottile velo di ghiaccio ha sigillato la tua campagna; ieri era autunno e domani forse già i boccioli  forzeranno quel velo rigido e fragile . Ma oggi torni a scaldare le mani al fuoco, dove non ci sono piu' castagne a far correre i bambini.
Chissà se lei lo guarda ora che lo zufolo é posato su quella mensola come una foto; chissà se lo guarda e ti pensa , tu che eri cosi' importante per lei. Chissà se riconosce l'impronta delle tue mani sulla vecchia pelle, se ci ha trattenuto ancora un po' il calore del tuo respiro. Oppure le basta sapere che é li' , che si é tenuta un pezzo di te.
Accanto ci ha messo un'altra foto, quell'orologio bellissimo, rotondo e prezioso che ti capito' forse per caso tra le mani ruvide di contadino, un regalo per un tuo grande atto di nobiltà, che non conosco ma che immagino facilmente alla portata dei tuoi occhi di quel blu cosi' generoso di cielo e di cuore.
Non ricordo piu' quando lo fece riparare; é difficile resistere alla fantasia che un orologio che si é fermato quando riparte ci puo' raccontare quegli anni che lo hanno fatto girare , girare fino a che avesse bisogno di riposarsi. Come se quei tic-tac si mettessero a cantarci le storie di prima, gli anni che hanno contato, tutte le storie di affetto, amore, fame, e nascite spezzettate da loro in ore e minuti.
Io le avrei volute sapere, ma forse tu le volevi dimenticare. Anni che vedo volteggiare e dispiegare orizzonti e legna bruciata e cani che scodinzolano, erano forse per te colmi di delusioni e rimpianti, di terra che é diventata sabbia, di occhi che fissavano le scarpe. E ti sei ritrovato li' sospeso tra il ricordarli e il volerli sostituire con storie piu' grandi e finali piu' lunghi e diversi che potessero dirti chi e perchè faceva chinare tutte quelle teste, imprigionato in una cucina dalle maioliche rassicuranti e fredde, un crocifisso e il telegiornale delle otto.
Il tuo orologio é al sicuro , protetto e non lo tocchiamo mai per non consumarlo con i nostri ricordi, al massimo lo spolvera lei la domenica; lui é li' su quella mensola, rubato allo scorrere del tempo.